martedì, febbraio 22, 2005

Tre ottimi articoli dell'economista Emiliano Brancaccio: la prova che la anche sinistra è in malafede

Vi propongo tre articoli apparsi sul quotidiano comunista "il manifesto" e sul sito di Attac Italia. Sebbene anche Brancaccio, come del resto tutti i circuitisti, ometta che la Scuola Italiana di economia ha dimostrato possibile, giusto e necessario il Reddito di Esistenza Monetario, probabilmente neanche lui sarà chiamato - quel giorno - a dare spiegazioni. E a parte l'allucinazione statalista ho trovato straordinariamente coraggiosi (per un uomo di sinistra) alcuni suoi passaggi. A due anni di distanza (gli articoli sono del 2003) il nostro si aggiunge alla lista di profeti inascoltati dalla massa di burattini cerebrolesi ignari di come vengono tosati. Verranno riscoperti quando sarà troppo tardi, come sempre. Buona lettura.


ABOLIRE IL RENTIER GLOBALE

Dopo il successo del Forum sociale europeo e a pochi giorni dall'apertura del terzo Forum mondiale di Porto Alegre, il movimento attraversa una delicata fase di maturazione. Nel corso dei dibattiti di Firenze è infatti emersa, in più occasioni, una forte sollecitazione ad andare oltre i no alla guerra, al razzismo e a un neoliberismo non sempre ben definito, per aprire finalmente un confronto serrato sulla 'visione' del sistema economico e sugli indirizzi generali di politica economica globale. Questa sollecitazione si scontra ovviamente con gli attuali limiti del movimento. Come hanno giustamente sottolineato Lucio Magri e altri, il popolo di Porto Alegre sconta gli effetti di una vera e propria cesura nella memoria storica, che ha reso farraginosa, ancor prima che conflittuale, la comunicazione tra le generazioni, e ha rallentato il confronto con le grandi sfide del secolo scorso. In un certo senso, è come se questa riluttanza a guardarsi indietro abbia fatto sì che gli immensi interrogativi del '900 sul modo di produzione capitalistico, sugli estremi istituzionali del piano e del mercato e più in generale sul potere e sul suo esercizio, siano rimasti sospesi per aria in attesa di una risposta. Un così difficile rapporto con la storia è stato finora esorcizzato, e talvolta ingenuamente ostentato, richiamandosi allo slogan zapatista del "camminare domandando". Tuttavia questa parola d'ordine comincia a star stretta a molti, e in particolare a coloro che vedono nel movimento una forza potenzialmente in grado non solo di contrapporsi alla guerra, ma anche di incidere sul corso degli eventi economici. Attribuire questa prospettiva ambiziosa a una moltitudine così giovane e incerta potrà sembrare smodatamente futuristico, e quindi fuori luogo. D'altro canto è innegabile che per la sua proiezione al tempo stesso planetaria e no global, e per l'ostilità nei confronti del Fondo monetario e delle altre istituzioni internazionali, il movimento appare guidato da una serie di intuizioni politiche di enorme rilievo. Tra queste, come vedremo, assume particolare significato la condanna della speculazione finanziaria e dei creditori internazionali, e più in generale la denuncia dell'espansione sempre più oppressiva delle rendite a livello globale.
Per rendita, si badi, qui intendiamo il reddito derivante dalla proprietà di un bene che può essere naturalmente scarso, come l'acqua, ma che può anche essere reso artificialmente tale, come è il caso della moneta. Nella rendita vanno quindi inclusi i tassi d'interesse sui prestiti al netto del rischio, i quali rappresentano tra l'altro la base su cui vengono a determinarsi i tassi di profitto sul capitale. Vale la pena di notare che in quest'ottica i termini 'rentier' o 'capitalista' divengono entro un certo limite interscambiabili, e il limite consiste semplicemente nel fatto che soltanto al secondo spetta la decisione di allocazione dei capitali tra i vari settori e la conseguente assunzione dei rischi. Ora, il movimento ha finora istintivamente compiuto degli attacchi sia alle alte rendite che ai meccanismi di allocazione concorrenziale dei capitali, e quindi alla connessa dinamica dei margini di profitto. La denuncia delle crisi generate dalla speculazione finanziaria rappresenta, in tal senso, una implicita messa in discussione della presunta efficienza delle allocazioni decentrate proprie del mercato, e costituisce pertanto una possibile strada per recuperare e aggiornare i vecchi dibattiti sul piano. Ad ogni modo, quella strada è ancora lontana. È opportuno tener presente, infatti, che il movimento è rimasto finora pressoché muto sui problemi del modo di produzione della ricchezza mondiale, limitandosi a denunciare la distribuzione sperequata e la composizione ecologicamente insostenibile della stessa. Ecco perché in questa sede soffermeremo l'attenzione sui soli aspetti del conflitto distributivo, ossia sull'attacco alla rendita e al rentier-capitalista che, in modo più o meno consapevole, il popolo di Porto Alegre conduce. La ribellione nei confronti dell'illegittimo potere del rentier ovviamente non è nata a Seattle. Essa trova antichi precedenti nella definizione aristotelica di prezzo giusto e nella lotta all'usura dei filosofi cattolici del XIII secolo. I filosofi morali condannavano però la rendita in termini puramente etici e normativi. Spettò invece a Marx, a Keynes e alla connection tra i due avanzata dagli economisti anglo-italiani di Cambridge rivelare la natura oggettiva della rendita, la sua stretta correlazione con il profitto e le modalità in cui essa tende a manifestarsi e a diffondersi all'interno del sistema capitalistico. In particolare, la Marx-Keynes connection permise di contestare il ruolo di motore dell'accumulazione e del progresso economico che gli esponenti dell'ortodossia neoclassica attribuivano al tasso d'interesse. Nella visione Marx-Keynes i tassi d'interesse assumono infatti il carattere prevalente di mera rendita, generata dalla scarsità artificiale del denaro e dalla concentrazione dello stesso nelle mani di pochi. Quanto più il denaro è scarso e concentrato, tanto più i tassi d'interesse crescono, il che consente ai rentiers (e ai capitalisti) di accaparrarsi la massima quota possibile del surplus sociale esistente, principalmente a scapito dei salari e della spesa pubblica. Nel corso degli anni '60 e '70 la Marx-Keynes connection suscitò dibattiti accesissimi, concorrendo con altre visioni del mondo a una contesa delle idee di portata storica. Il fermento di pensiero critico dell'epoca venne tuttavia soffocato dalla restaurazione ideologica degli anni '80, che non a caso coincise con un radicale cambiamento a livello mondiale negli indirizzi di politica economica. Inaugurato dalla nomina di Paul Volcker al vertice della Federal Reserve, il cambiamento si manifestò soprattutto nei divorzi tra Banche centrali e governi, nella tendenza alla restrizione monetaria permanente e nella forsennata liberalizzazione dei movimenti di capitale, misure promosse per sottrarre la moneta dall'arena del conflitto distributivo e rispettivamente finalizzate a renderla di esclusiva proprietà privata, artificialmente scarsa ed estremamente mobile. La conseguenza di tutto ciò è semplice quanto drammatica: anche considerando le recenti tendenze al ribasso, di natura meramente congiunturale, nell'ultimo ventennio i tassi d'interesse reali (calcolati cioè al netto dell'inflazione) sono stati alti e instabili come mai era accaduto prima nella storia dell'umanità. I livelli elevati e le oscillazioni dei tassi d'interesse rappresentano il dato unificante, quello che attraverso svariati canali ha segnato la vita quotidiana di miliardi di persone. Basti pensare all'aumento delle tasse sul lavoro e alla riduzione dei fondi pubblici destinati al Welfare, misure in gran parte causate dal restringimento dei finanziamenti delle Banche centrali alla spesa statale e dalla necessità di far fronte alla contemporanea espansione della spesa per interessi a favore dei possessori di titoli del debito pubblico (un fenomeno, questo, verificatosi in modo trasversale nel Nord e nel Sud del pianeta, in Italia come in Brasile). Oppure, riguardo all'ambiente, si pensi alla stretta correlazione esistente tra l'aumento dei tassi d'interesse pagati dai paesi indebitati e lo spaventoso incremento dei ritmi di sfruttamento delle risorse naturali di quegli stessi paesi, uno sfruttamento finalizzato al vano tentativo di rimborsare i prestiti per liberarsi dalla morsa dei creditori. Se poi guardiamo al lavoro, scopriremo che gli elevati tassi d'interesse reali hanno fortemente influenzato le dinamiche contrattuali, contribuendo ad accrescere i margini di profitto a danno dei salari e dell'occupazione (a tal proposito, si può notare che gli shock più significativi nel rapporto tra profitti e salari si sono generalmente verificati in seguito all'ampliamento del divario tra i tassi d'interesse e il tasso di crescita del Pil). Queste tendenze, che hanno impedito ai lavoratori di godere dei guadagni di produttività di un intero ventennio, in Europa vengono oggi cristallizzate nella linea d'azione della Banca centrale, che minaccia esplicitamente di elevare i tassi d'interesse al primo accenno di rivendicazione da parte dei sindacati. Ciò significa che nell'attuale scenario di politica economica le istituzioni monetarie si sentono autorizzate a controllare i lavoratori manovrando sui tassi, ossia agitando continuamente lo spettro della recessione e della disoccupazione. Un orientamento, questo, che si auto-legittima nel corso delle crisi valutarie, in cui le banche centrali contrastano le vendite speculative e le fughe di capitale elevando i tassi d'interesse a livelli inauditi, al fine di ammansire i sindacati, comprimere i salari per contrastare le svalutazioni e convincere così i creditori a non abbandonare i paesi sotto attacco. Solo per citare un esempio emblematico, si può ricordare che il Brasile è stretto proprio in una morsa del genere, il che significa che, a meno di un fortissimo sostegno internazionale all'ipotesi di rinegoziazione degli oneri finanziari, la coalizione progressista guidata da Lula (nonché i vari enti locali a bilancio partecipato) rischiano di soccombere sotto l'insostenibile pressione dei creditori. Nel corso degli ultimi vent'anni, insomma, la proprietà privata, la scarsità e la mobilità della moneta e i conseguenti elevati livelli dei tassi d'interesse e di profitto hanno duramente inciso sulle condizioni del lavoro, dell'ambiente e dello Stato sociale, sia nel Nord che nel Sud del mondo. L'estrema difficoltà di modificare le norme relative al funzionamento delle Banche centrali e ai movimenti di capitale ha progressivamente indotto le sinistre, e in particolare i partiti socialisti europei, alla rassegnazione e all'ignavia [prendiamo nota sul solito post-it] nei confronti delle dinamiche in corso. Il movimento esprime, pertanto, la prima reazione a questo stato di cose dopo anni di colpevole silenzio. Esso infatti si interroga sui rapporti di dominio dei creditori sui debitori, denuncia le nefandezze e le oppressioni che sono scaturite da quei rapporti e afferma l'assoluta necessità di ribaltarli. Il movimento inizia inoltre a comprendere che l'alto costo del denaro ha colpito i lavoratori e i soggetti più deboli sia dei paesi ricchi che dei paesi più poveri. Una presa di coscienza, questa, che assume un inestimabile valore politico, perché delinea una convergenza di istanze tra soggetti apparentemente lontani, e perché consente di liberare il popolo di Porto Alegre da una nomea che non gli rende merito, quella di movimento puramente etico, normativo, un movimento che penserebbe 'soltanto agli altri e non a sé'. Una volta però delineata la convergenza di istanze, si pone la necessità di individuare una soluzione, una linea d'azione razionale e condivisa che permetta al movimento di smuovere il dibattito politico, e che costringa soprattutto i partiti socialisti a interrogarsi sugli errori compiuti in questi anni. Questa linea d'azione dovrebbe consistere nel trascinare la moneta e le istituzioni che la governano al centro del confronto politico, al fine di promuovere tutte le misure atte a contrastare la proprietà privata, la scarsità e la mobilità della stessa: misure che vanno dalla radicale riforma in senso democratico degli statuti delle Banche centrali al ripristino dei controlli sui movimenti di capitale. Occorrerebbe in altri termini sostenere tutte le iniziative atte a ripristinare la sovranità politica sulla moneta e a regolare, segmentare, dividere tra loro i mercati finanziari mondiali. Il carattere no global del movimento verrebbe in tal modo reinterpretato, passando dall'incerto terreno delle lotte contro un liberoscambismo tutto da verificare, al solido e urgente obiettivo di riprendere il controllo politico dei movimenti di denaro. Inoltre, le rivendicazioni sul governo della moneta aprirebbero la strada a un progetto di politica economica realistico e colossale, basato sull'obiettivo di abbattere i tassi di interesse reali fino a posizionarli, in modo permanente e non congiunturale, intorno allo zero. Gli effetti di un simile abbattimento dell'intera struttura dei tassi d'interesse sarebbero enormi, sia in termini di distribuzione della ricchezza prodotta che di composizione fisica della stessa. La prospettiva ideale della società senza rentiers tornerebbe in auge e una nuova stagione di conquiste per il lavoro, l'ambiente e lo Stato sociale verrebbe inaugurata. Dal punto di vista dei salari e delle condizioni di lavoro, l'abbattimento sistematico dei tassi d'interesse favorirebbe la riduzione dei tassi di profitto e aprirebbe spazi per la difesa e l'ampliamento dei diritti. Dal punto di vista della spesa pubblica, semplicemente collocando la media dei tassi d'interesse sui titoli di Stato al di sotto del tasso di crescita nominale del reddito, i singoli paesi potrebbero passare dai lacci soffocanti imposti dagli attuali avanzi primari alle grandi possibilità di cambiamento strutturale offerte da deficit primari oggi impensabili, il tutto in condizioni di perfetta sostenibilità del rapporto tra debito e Pil. Per la sua proiezione internazionale, il movimento rappresenta, allo stato dei fatti, l'unico soggetto politico capace di inaugurare un confronto sulla riforma delle istituzioni monetarie globali e di promuovere un paradigma alternativo, basato sulla sovranità monetaria e sull'abbattimento dei tassi d'interesse. Un obiettivo così ambizioso potrà tuttavia esser perseguito solo se alla battaglia del movimento si affiancheranno, ai vari livelli nazionali, le spinte dei sindacati, dei partiti, e degli altri soggetti sociali sui salari, sulle condizioni di lavoro e sulla spesa pubblica, ossia sulle uniche leve di cui disponiamo per far saltare i vincoli ideologici all'inflazione salariale e al disavanzo pubblico dai quali dipendono la stabilità e la sopravvivenza dell'attuale palinsesto neoliberista di politica economica. La battaglia del movimento per il governo politico della moneta e per i tassi a zero, insomma, costituirebbe una forza propulsiva simmetrica e logicamente complementare alle rivendicazioni dei lavoratori e dei beneficiari della spesa pubblica sul surplus sociale esistente. Ed è proprio questa simmetria tra azioni di rottura a livello nazionale e proposte alternative a livello globale che offrirebbe una base più solida a quel legame istintivo tra il movimento e i lavoratori che, come hanno rilevato Cremaschi e altri, a Firenze ha trovato l'ennesima conferma, ma che necessita di una piattaforma comune per poter sviluppare tutto il suo potenziale. Si potrebbe obiettare che proporre al movimento dei movimenti di identificarsi nella 'presa della Banca centrale' e in una versione 'conflittuale' del piano Keynes del 1943 sulla riforma del sistema monetario è operazione fuorviante, o quantomeno prematura. Il che sotto molti aspetti è vero. Tuttavia, ogni giorno che passa si acuisce la contraddizione tra l'assoluta necessità di aprire un confronto sul governo della moneta e l'ostinato, assordante silenzio delle istituzioni politiche su questo nervo scoperto del capitalismo globale. La rottura di quel silenzio produrrebbe una svolta e un'accelerazione straordinaria sul corso degli eventi. E consentirebbe al movimento di tener finalmente testa allo slogan, bello ma impegnativo, secondo cui 'un altro mondo è possibile'.

(la rivista del manifesto n°35, gennaio 2003)


DIBATTITO. JOAN ROBINSON E UNA POLITICA ECONOMICA ALTERNATIVA

Il movimento costretto, dopo la guerra coloniale in Iraq, a tornare sulla terra e a ridimensionare le mire da "seconda superpotenza globale"; le brucianti sconfitte sindacali e referendarie in Francia, Germania e Italia; la triste prospettiva nostrana di un accordo programmatico di bassissimo profilo tra l'Ulivo e il Prc; e, sul versante istituzionale, il totale fallimento della Convenzione europea, incapace di compiere anche un solo passo sulla via dell'unificazione politica. Un simile scenario esige che ci si fermi a riflettere, e il programma per la piena occupazione di Joan Robinson, proposto da Luigi Cavallaro ai fini della progettazione di "un'altra Europa possibile" ("Il manifesto", 3 agosto), rappresenta uno spunto di indubbio valore. Non riusciremo tuttavia a indicare una via d'uscita dall'attuale stato di cose esaminando i fatti dal solo punto di vista della disoccupazione e dei mezzi per fronteggiarla. Dopotutto, la disoccupazione non e' altro che una delle inumerevoli manifestazioni della capacita' dell'odierno capitalismo di generare rabbia e frustrazione a mezzo di sprechi di risorse e inaudite disuguaglianze. La ben nota opinione della Robinson, secondo cui e' sempre meglio essere oggetto di sfruttamento che morire d'inedia disoccupati, potra' dunque considerarsi solo soggettivamente legittima, mentre risulterebbe un'ottima scusa per le peggiori nefandezze (dalla "piena occupazione dei poveri" nell'America clintoniana alle funeste strategie di workfare di Blair e D'Alema), se venisse elevata al rango di proposizione politica. La critica al capitalismo in quanto generatore di iniquita' e inefficienze (la peggiore delle combinazioni possibili) rappresenta pertanto l'unica base credibile su cui poter edificare un progetto alternativo di politica economica. A tal proposito le ricerche di Joan Robinson ci vengono senz'altro in aiuto. Il suo modello analitico (sviluppato tra gli anni '50 e '60 e fondato sull'integrazione tra la teoria keynesiana e l'interpretazione di Marx suggerita da Sraffa) consente infatti di evidenziare una fondamentale contraddizione del capitalismo contemporaneo attraverso l'esplicitazione dei seguenti due punti. Il primo e' che la Robinson aderi' entusiasta alla critica demolitrice di Sraffa alla teoria neoclassica dominante, una critica che ha chiarito in modo inequivocabile come il profitto e la rendita non costituiscano affatto il "prezzo" per il contributo del capitalista alla formazione del prodotto nazionale. Ella sostenne che con questa critica Sraffa era riuscito a "vendicare Marx", avendo dimostrato l'assenza di valide basi analitiche per il pagamento del profitto e della rendita e avendo quindi implicitamente evidenziato la loro intima connessione con il fenomeno dello sfruttamento. Il secondo punto, tuttavia, e' che la Robinson riteneva che il ritmo di accumulazione del capitale dipendesse in ogni caso dal tasso di profitto, nel senso che i capitalisti si rendono disponibili a investire solo se adeguatamente remunerati. Dal modello della Robinson emerge dunque un profitto che risulta privo di giustificazioni sul piano strettamente tecnico-produttivo, ma che preserva al tempo stesso il fondamentale ruolo di motore dell'accumulazione capitalistica. L'origine di una simile contraddizione e' presto detta: i capitalisti dispongono di un accesso privilegiato alla moneta, imprescindibile chiave di attivazione dell'investimento. Tale privilegio si e' oltretutto rafforzato proprio nell'ultimo ventennio. Infatti, a causa di politiche monetarie perennemente restrittive, del divieto per le banche centrali di finanziare direttamente la spesa pubblica e della completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, la moneta e' divenuta sempre piu' scarsa, di proprieta' privata ed estremamente mobile. Tra le principali implicazioni di questa tendenza vi e' il fatto che da oltre un ventennio la media dei tassi d'interesse nominali si situa sempre, sistematicamente, al di sopra del tasso medio di crescita del reddito nominale, il che non soltanto contribuisce alla progressiva divaricazione tra redditi da lavoro e da capitale, ma costringe anche i singoli paesi a draconiani avanzi primari pur di contrastare l'esplosione dei debiti pubblici, e inoltre la dice lunga sull'insulsa opinione secondo cui oggi "i tassi d'interesse sono bassi" (bassi rispetto a cosa ?). Per giunta, l'accesso privilegiato ai mezzi monetari e finanziari conferisce oggi ai capitalisti il compito pressoche' esclusivo di determinare non solo il livello, ma anche e soprattutto la composizione della produzione: una sorta di "monopolio del futuro" che pregiudica qualsiasi possibilita' di innalzamento del rapporto tra beni pubblici e privati e di riconversione ecologica del'apparato produttivo, e che rinvia quindi all'infinito qualsiasi risposta sensata alla famosa domanda della Robinson: "a che serve l'occupazione?". Joan Robinson evito' sempre di offrire soluzioni univoche e generali alla contraddizione capitalistica, ma non smise mai di sottoporre il sistema di mercato a un continuo, serratissimo confronto con il socialismo di mercato e la pianificazione centralizzata. Dati i tempi e le contingenze, noi qui non oseremo tanto. Tuttavia, una cosa ci pare indiscutibile. Dal controllo dei movimenti di capitale alla democratizzazione dell'operato della banca centrale, gli strumenti in grado di delineare una credibile, razionale proposta di politica economica alternativa sono ben noti, e alla piena portata delle istituzioni europee. Ma la determinazione e la massa critica necessarie per porli in essere potra' derivare soltanto dallo spietato recupero di senso critico nei confronti di un sistema governato da soggetti privi di qualsiasi prerogativa, se non quella di godere di un accesso privilegiato ai mezzi monetari. Resta solo da chiedersi se una tale presa di coscienza si situi al di la' dei desideri e delle possibilita' dell'attuale ceto politico di riferimento, invischiato com'e' nella sindrome del "bilancio in pareggio" e nella (correlata) eccessiva frequentazione dei salotti buoni della finanza.

("Il manifesto", 15 agosto 2003)


PERCHE' ABOLIRE MAASTRICHT

Abbiamo impiegato un po' di tempo per mettere a fuoco questo obiettivo. A lungo ci siamo barcamenati alla ricerca dell'asse portante delle nostre iniziative, ma alla fine ci siamo arrivati. L'Europa di Maastricht rappresenta il nostro vincolo, il muro da abbattere. Tuttavia c'è una domanda, una domanda che ci ronza in testa, che è insidiosa, una domanda alla quale vorremmo dare una risposta precisa, netta. La domanda è questa: che cos'è Maastricht ? Ebbene, se io fossi chiamato a rispondere direi questo: direi che Maastricht è controllo [mi ricorda qualcosa...]. Maastricht è innanzitutto controllo sulla quantità di moneta, ma più in profondità, Maastricht è controllo sul nostro vissuto quotidiano, è controllo sulle nostre menti. Il Trattato dell'Unione Europea approvato a Maastricht nel 1992 rappresenta infatti il più sofisticato palinsesto di regole attualmente esistente nel mondo, costituito al fine di disciplinare l'emissione e la circolazione di moneta. Noi crediamo che gli euro che ci passano tra le mani, i miliardi di euro che circolano ogni giorno, noi crediamo che essi si muovano sulla base di un meccanismo caotico, non governabile, un meccanismo fondato sulle microdecisioni di una miriade di agenti. Ma la verità è che questo incessante turbinio, questa circolazione apparentemente caotica della moneta è in realtà fortemente condizionata dal palinsesto istituzionale, dal sistema di regole che abbiamo scelto (o che magari non abbiamo affatto scelto: del resto, qualcuno forse ricorderà che alla vigilia di Maastricht non vi fu un gran dibattito pubblico. Ci si è pure legittimamente domandati cosa stessero facendo gli esponenti delle sinistre europee mentre si scriveva il Trattato. Qualcuno ha detto che erano distratti dalla caduta dell'URSS, qualcun altro ha detto che giocavano a carte e andavano in barca [prendiamo nota sul solito post-it]; io non lo so davvero, ma vorrei saperlo [lo sapremo presto]). Sia come sia, Maastricht ha sancito il nostro sistema di regole, e quindi ha definito il modo in cui oggi gli euro vengono emessi e circolano. In particolare, gli articoli del Trattato che disciplinano il funzionamento della Banca centrale europea, gli articoli sui disavanzi pubblici eccessivi, sui movimenti di capitale, nonché il famigerato Patto di stabilità (che badate, subirà nella migliore delle ipotesi modifiche del tutto marginali, e probabilmente nemmeno quelle), tutto questo sistema di norme è stato costruito per tre scopi fondamentali:

- rendere la moneta scarsa
- rendere la moneta di esclusiva proprietà privata
- rendere la moneta estremamente mobile

La moneta è scarsa perché la Banca centrale europea, per statuto, è tenuta a stampare poche banconote, il meno possibile. La moneta è di esclusiva proprietà privata perché la Banca centrale europea è autorizzata ad iniettare moneta esclusivamente all'interno del circuito finanziario privato, presso le banche private o sul mercato dei titoli, mentre è tassativamente vietato che la Banca centrale eroghi direttamente moneta agli Stati membri dell'Unione per finanziare la spesa pubblica. La moneta infine è estremamente mobile, dal momento che in Europa e nel mondo vige ormai da anni un regime di circolazione dei capitali quasi puro, ossia quasi privo di vincoli. Sfrutto un ragazzino a Giakarta, vendo a Londra le merci che egli ha prodotto, uso il ricavato per finanziare un attacco speculativo sul peso Argentino, e infine metto il guadagno alle Isole Cayman, il tutto in un batter d'occhio, con gli agenti del fisco che arrancano dietro le mie operazioni, e i giudici con le loro rogatorie pure. Loro arrancano, ma non c'è nulla da fare, il capitale oggi è più veloce, e se la ride. Ora, per l'appunto, chi ride ? Chi gode cioè oggi di questo sistema di regole? Beh, si presume che goda chi difende questo sistema di regole, perché questo sistema è ottimamente difeso, è come un fortino. Che qualcuno ci provi a mettere in discussione gli articoli del Trattato, che ci provi. La reazione è immediata, ed è feroce. Banchieri, esponenti della comunità finanziaria, esperti, opinionisti, nonché spesso e volentieri alcuni esponenti dei partiti che il movimento vota [prendiamo ancora nota, sempre sul solito post-it], questi signori riempiranno gli spazi mediatici e le pagine dei grandi giornali per gridare allo scandalo, all'atto terroristico, proprio così, all'atto terroristico. Ci diranno che il rischio d'inflazione è altissimo. Ci diranno che la stabilità e il benessere dipendono dal rigoroso rispetto delle regole di Maastricht, e che violarle ci condurrebbe dritti sull'orlo di una crisi valutaria. In realtà bisogna dire che noi, noi che di moneta ne vediamo poca (e ne vedremo sempre meno se non ci diamo una mossa), noi per il momento siamo sull'orlo di una crisi di nervi, non di una crisi valutaria. Eppure il martellamento è tale che finiamo per crederci a tutte quelle panzane. Finiamo per crederci davvero. Maastricht infatti è controllo, controllo delle nostre menti. Non è un caso del resto che noi, oggi, ci barcameniamo tra una miriade di proposte e iniziative degne ma parziali, e talvolta persino contraddittorie. Mi riferisco al commercio equo e solidale, alla difesa della sovranità alimentare di José Bové, o alla invocazione ad una moralità manageriale da parte di Naomi Klein. Il che andrà pure bene, ma quando si tratta di immaginare una vera alternativa politica generale al meccanismo dominante allora il movimento ammutolisce, si paralizza. Intanto però, mentre il movimento rimane fisso a rimuginare la realtà cambia, si trasforma. La moneta scarsa, di proprietà privata ed estremamente mobile, sta infatti provocando, da oltre un decennio, un gigantesco spostamento della distribuzione del reddito a favore delle rendite finanziarie e dei profitti, e a danno dei lavoratori, dei beneficiari della spesa pubblica, dell'ambiente, e il tutto sta avvenendo ovunque, nel Nord come nel Sud del mondo. Moneta scarsa, infatti, significa alti tassi d'interesse. Oggi vi dicono che i tassi d'interesse sono bassi. Che sciocchezza: il livello dei tassi non si misura mai in termini assoluti, ma sempre e soltanto in relazione al tasso di crescita del reddito. E sono ormai vent'anni che i tassi d'interesse si situano sistematicamente al di sopra del tasso di crescita del reddito. Il risultato è che, da tempo ormai, vige nel mondo la dittatura dei creditori, la dittatura dei capitalisti finanziari, la dittatura di quelli che Tom Wolfe ha efficacemente definito "i padroni dell'universo". In Italia sussiste il seguente paradosso: per soddisfare le esigenze creditori, dei padroni dell'universo, da anni lo Stato preleva dai contribuenti molto più di quanto spende per scuola, sanità, previdenza, infrastrutture, ed è tenuto ad utilizzare la differenza tra le entrate e le uscite per pagare le rendite ai suoi creditori, ai possessori di titoli di Stato. E' questa la ragione fondamentale per cui, da anni, le tasse aumentano e la spesa pubblica si contrae. E' questa la ragione per cui si privatizza tutto per fare cassa, è questa la ragione per cui i bilanci partecipati non decollano, è questa la ragione per cui il salario sociale, nelle mani dei tecnocrati del centrosinistra, rischia di diventare elemosina. La ragione è che occorre tenere sbilanciato il sistema a favore del capitale, occorre pagare i grandi creditori, i grandi possessori di rendite finanziarie, i padroni dell'universo. I paradossi comunque sono solo iniziati, e non riguardano solo l'Europa. I Brasiliani ad esempio sono costretti ad usare il 70% del valore delle merci che esportano per pagare i creditori internazionali. Il settanta per cento delle loro fatiche finisce nelle tasche dei creditori, dei rentier. Ma torniamo all'Europa. La Banca centrale europea dice di tenere la moneta scarsa per impedire l'inflazione. In realtà così facendo essa riesce a fare qualcosa di molto più sottile: controllando la moneta, la Banca centrale controlla la crescita dei salari, controlla la distribuzione del reddito. Volete un esempio ? L'anno scorso, prima dell'attuale crisi, i sindacati tedeschi conquistarono, dopo anni di sacrifici, il primo aumento salariale al di sopra dell'inflazione. Ebbene, la reazione di Otmar Issing, autorevole esponente del direttorio della Banca centrale, fu immediata. Issing disse che l'irresponsabilità di alcuni sindacati europei avrebbe costretto la Bce a comprimere ulteriormente la quantità di moneta, e ad elevare i tassi d'interesse. Questo significa una cosa molto semplice: attraverso la minaccia dell'aumento dei tassi, e quindi della recessione e della disoccupazione, la banca centrale controlla l'azione dei sindacati, controlla le loro rivendicazioni, ostacola le battaglie sull'espansione dei diritti, attacca l'articolo 18 e le tutele contro i licenziamenti, e lo scopo è uno solo: impedire il rafforzamento contrattuale dei lavoratori, impedire che essi accrescano il loro controllo sulla produzione e sulla distribuzione del reddito. Maastricht è controllo, controllo sul lavoro, controllo sul nostro vissuto quotidiano. Ora, io qui vedo tanti giovani. E' una fortuna ed è una necessità. E' una necessità perché anche a causa di scelte irresponsabili e autolesioniste da parte della sinistra [aggiungiamo note su note], i giovani stanno pagando più di tutti gli effetti dell'Europa di Maastricht. Il loro ingresso nel mondo del lavoro è sempre più traumatico, le loro retribuzioni sono crollate in rapporto a quelle degli adulti, che a loro volta sono crollate in rapporto ai profitti. I giovani sono stati da tempo abbandonati al loro destino, e questa scelta le sinistre la stanno pagando carissima. E badate, molti di questi giovani, soprattutto quelli appartenenti agli strati più bassi e invisibili della società, oggi votano a destra. Io credo che la sinistra e il movimento debbano imparare ad intercettarli, debbano cioè imparare una cosa che non sanno ancora fare [anch'io lo credevo, prima di credere che forse non è tutto "casuale"]. Una simile sfida, badate, è decisiva, perché la vera partita si giocherà nei quartieri popolari, nelle aree cioè in cui, da tempo, gran parte della sinistra politica e del movimento non si azzardano nemmeno ad entrare [appunto]. Ah, detto per inciso: io non aspetterei che qualcuno venga a salvare i più giovani. Io mi aspetterei piuttosto che i più giovani decidano di agire, per salvarsi da sé [v. prossimo post]. Questo per quanto riguarda il lavoro. Ma non c'è solo l'attacco al lavoro e ai più giovani, c'è pure l'attacco all'ambiente. Un esempio facilissimo, uno tra tanti. Ogni volta che i tassi d'interesse aumentano, il debito dei paesi poveri si espande, e guarda caso, aumenta lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali di quei paesi, aumentano le deforestazioni. E la ragione è semplice: questi paesi le provano tutte pur di tentare di pagare i debiti e liberarsi dalla morsa dei creditori. Ma in assenza di un'accorta politica di preservazione le risorse presto finiscono. E poi, ricordate, oggi la moneta è mobile e i capitali fuggono se non vengono adeguatamente remunerati. E sotto la continua minaccia della fuga di capitali, la morsa dei creditori è stretta. Nessun paese, dico nessuno, è mai riuscito a liberarsi. E non ci riuscirà nemmeno Lula, sul quale tante speranze avevamo riposto. Lula infatti è stato costretto a rinunciare alla rinegoziazione del debito, è stato costretto a sottostare alle condizioni da strozzinaggio dei creditori internazionali, di cui molti europei. La questione a questo punto è quella di sempre: che fare ? Innanzitutto io direi che è bene fare autocritica, a sinistra e più in particolare dentro il movimento [autocritica ? troppo tardi. fra poco sarà bene dare spiegazioni soddisfacenti a qualche milione di persone, e non vorrei trovarmi nei loro panni]. Noi dobbiamo fare autocritica perché siamo ancora vaghi, velleitari, perché giriamo intorno al problema alla ricerca di soluzioni comode, facili, magari glamour. Ma la sfida che abbiamo di fronte non è facile, non è glamour. Noi dobbiamo uscire dal ventennio liberista, dobbiamo trovare la via di fuga, e dobbiamo farlo in fretta perché i più giovani stanno già fungendo da cavie per degli esperimenti in vitro di capitalismo puro, un capitalismo senza compromessi. Il primo passo in questa direzione deve essere netto, inequivocabile, e attiene all'analisi del capitalismo, e della sua fondamentale contraddizione. Il capitalismo è un sistema governato da soggetti privi di qualsiasi prerogativa, se non quella di godere di un accesso privilegiato, privato, esclusivo ai mezzi monetari. I padroni dell'universo non hanno nessuna virtù. Essi dispongono semplicemente della proprietà privata della moneta, e quindi dispongono di noi. I padroni dell'universo naturalmente dispongono della moneta, quindi comprano i media, comprano i politici, e potranno quindi farvi raccontare la vecchia favola Vittoriana, quella secondo cui essi in realtà risparmiano, accumulano, investono, e quindi sono legittimati a governare il mondo. Ma si tratterebbe ancora una volta di controllo. Perché vedete, sono ormai decenni che grazie a Marx, a Keynes, a Sraffa e a molti altri, noi sappiamo che queste sono panzane, noi sappiamo che il capitale è parassitario, che sussiste e governa a causa del controllo sulla moneta. Per afferrare la natura parassitaria del capitale riprendiamo la sequenza della favola Vittoriana: risparmio, accumulazione, investimento. Ascoltandola, Marx proporrebbe un piccolo passo indietro, e chiederebbe ai padroni dell'universo: ma da dove viene il vostro risparmio, se non dal lavoro altrui? E Keynes aggiungerebbe: come fate a partire dal risparmio ? Il risparmio non esiste se non c'è il reddito, e il reddito non esiste, non viene prodotto, se non c'è la domanda, se non c'è l'investimento. Marx direbbe insomma che la sequenza è falsa perché pretende di celare lo sfruttamento. E Keynes aggiungerebbe che la sequenza è falsa perché ribalta la realtà. Su questo punto, badate, non si transige. Su questo punto convenivano persino Marx e Keynes, su questo punto convenivano persino i bolscevichi e i socialdemocratici. E non a caso convenivano. Perché la coscienza del carattere parassitario del capitalismo non è una questione accademica, è questione politica capitale. Perché nel momento in cui si insinua l'idea, in tutti noi, che in fondo se il sistema funziona così una ragione dovrà pur esserci, se lasciamo vincere l'idea dominante secondo la quale chi ci controlla è più bravo, più virtuoso, più dotato e quindi in fondo è legittimato a controllarci, ebbene se questa fuorviante visione del mondo non viene messa sotto processo, allora noi, noi tutti, comunisti, verdi, socialdemocratici, noi procederemo sempre a tentoni, come degli ubriachi che passeggiano di notte senza una meta, o peggio, come degli isterici, che contestano il "padre" ma che in fondo non sanno fare a meno di lui. Insomma, noi vogliamo cambiare il mondo. Ma la domanda è: lo vogliamo il potere per cambiarlo, si o no ? Perché vedete, se vogliamo il potere dobbiamo andarcelo a prendere, e per farlo dobbiamo innanzitutto comprendere che qualsiasi credibile azione politica che sia guidata dal desiderio immortale di libertà e di uguaglianza, qualsiasi azione di questo tipo esige che si conosca a menadito il profilo del nemico, e che soprattutto se ne conosca la natura parassitaria. Lo considerate un fatto scontato ? Ma non è un fatto scontato. La natura parassitaria del capitalismo non è un fatto scontato all'interno del movimento perché il movimento non ha nessuna idea precisa in merito al capitalismo, e la ragione è che in nome di una pelosa invocazione all'unità non si è finora aperto un vero dibattito sulla questione, non si è aperta una vera fase dialettica. E la dialettica è come l'aria. Se non c'è prima o poi si muore. [sono passati due anni, e infatti siete morti] Auguriamoci allora che il confronto dialettico inizi, e che inizi prima dell'implosione. Io propongo a questo proposito, ad ATTAC [questa ATTAC ? che burlone!] e al movimento, di definire un obiettivo politico molto preciso, quello che a mio avviso dovrebbe essere l'obiettivo politico prossimo venturo. Dico l'obiettivo e non gli obiettivi perché credo che non se ne possa più di questo caotico supermercato delle idee. C'è assoluto bisogno di uno schema, di un paradigma generale entro il quale far confluire tutte le nostre battaglie. Bové, Klein e tutti gli altri vanno pure bene, ma bisogna far confluire le forze in un punto focale, bisogna concentrare lo sforzo nella definizione di uno schema di azione coerente. Lo schema è quello delineato: le regole che governano la circolazione monetaria, e in particolare il nostro Trattato di Maastricht, hanno reso la moneta scarsa, di proprietà privata e mobile. Abbiamo visto che questo stato di cose condiziona tutti, dico tutti gli aspetti del nostro vissuto quotidiano, e soprattutto, rappresenta al tempo stesso l'origine e il vincolo di tutte le rivendicazioni del movimento, dalla lotta contro le privatizzazioni alle battaglie per i diritti, per l'articolo 18, per il salario sociale, per la tutela delle risorse naturali. Pertanto, visto che Maastricht è origine e vincolo del movimento, io dico che dobbiamo scardinare quel Trattato, io dico che l'unica cosa credibile da fare è stabilire che il movimento non tratta e non sostiene politicamente chi non sia pronto a riscrivere l'Europa partendo dal suo nucleo, partendo da Francoforte, dalle regole che disciplinano i mercati finanziari e la Banca centrale europea, le regole cioè che governano l'emissione e la circolazione di moneta. Sebbene tra mille resistenze ed equivoci, con la Tobin tax qualcosa si era mosso nella giusta direzione [?], ma adesso occorre fare molto di più. Il movimento deve mettere in piedi un processo politico, un processo agli articoli da 56 a 60 del Trattato dell'Unione, dedicati ai movimenti di capitale; nonché agli articoli da 99 a 111, dedicati alle politiche fiscali e monetarie. Solo in questo modo riusciremo ad imporre la sovranità democratica sulla moneta, e riusciremo quindi a riprendere possesso delle nostre vite. E se all'interno del movimento qualcuno ritiene che non sia questo l'obiettivo capitale, allora è il caso che si faccia avanti e che lo dica a chiare lettere in un confronto pubblico. Lo ripeto: questo deve essere il tempo della dialettica, il tempo della selezione delle idee giuste e vincenti in un supermercato politico ipertrofico, carico di prodotti inutili o avariati. Una volta definito l'obiettivo, si tratterà di affinare gli strumenti per l'azione. A questo proposito, mi dispiace, ma io ne conosco due soli: il sindacato e il partito. Pertanto dico: il movimento ha senso se opera dentro e fuori le istituzioni partitiche e sindacali per spingerle nella direzione dell'attacco al Trattato. Dunque operiamo, e facciamolo in fretta. Maastricht è controllo, ed è tempo di liberarsi.

(Attac.it, 11 settembre 2003)